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Anno edizione: 2018
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Conosco bene i luoghi e da questo volume ho tratto solo un senso di distacco e desolazione senza requie. A 40 anni dal grande terremoto, per ritrovare l'Irpinia seppur ferita torno alle pagine di Emilia Betsabea Cirillo che ancora 30 anni fa - quando le autoinvestiture a "paesologo" non esistevano - ha dedicato 30 ritratti colmi di partecipazione ad altrettanti paesi irpini nel suo "Il pane e l'argilla".
Arminio è un compagno sicuro! Ti accompagna e ti assiste anche quando narra di desolazioni e di accidia , anche quando sembra volersi "allontanare" dal lettore per ricercare un pudore limpido con se stesso , che gli consentirebbe un benessere a cui aspira , ma che la sua condizione di uomo inquieto gli impedisce di avere. da leggere e assaggiare e meditare. gli occhi dopo la lettura sono più aperti e attenti del solito.
Non mi ha entusiasmato molto. Molto belle e intense le parti del testo contenenti poesia pura o nascosta, ma i paesi vengono segnati e segnalati soltanto per la simpatia o antipatia dei pochi incontri fatti nella piazzetta. Nessun accenno alla storia, all'arte o ai beni turistici dei piccoli centri visitati. Solo descrizioni empatiche della propria disposizione d'animo Per alcuni centri solo appunti, poca cosa. E poi troppi concetti lasciati in sospeso, considerazioni senza spiegazioni, posizioni e umori dell'autore, nel particolare, sempre sul filo della disperazione (per poi invece ribaltare il tutto in alcune conclusioni generali, perchè ?). Solo per chi ama la poesia
Recensioni
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La neoscienza di cui Franco Arminio è inventore e scienziato, profeta e studioso, scriba ed esegeta, adepto e praticante si chiama paesologia: "Essa consiste essenzialmente in una forma d'attenzione. È uno sguardo lento e dilatato, verso queste creature che per secoli sono rimaste identiche a se stesse e ora sono in fuga dalla loro forma". Le "creature" sono, soprattutto ma non solo, i paesi di quella parte d'Italia dove Arminio è nato e vive e che lui definisce, con immaginifico epiteto, Irpinia d'Oriente.
Una terra un tempo poetica e silenziosa e adesso abitata non da un popolo, ma da "un campionario di solitudini, da una sommatoria di esistenze scoraggiate" che vagano in un panorama spettrale e postumo: di creta e di cemento, di erbacce e di vetrine, di rovine e di macerie che attestano la derelizione di paesi ormai sulla soglia della resa completa, dell'estinzione senza gloria. A questi paesi-creature andrebbe assegnata almeno una bandiera bianca, drappo e riconoscimento grottesco a simboleggiare l'assenza di chi se n'è andato definitivamente e di chi ha preferito, invece, non giungervi mai. Sono situati in luoghi impervi e scoscesi, privi di appeal e di grazia, con nomi petrosi e aspri che sembrano lapsus calami partoriti dalla perfidia di un geografo dispettoso: si chiamano Conza e Andretta, Aquilonia e Zingoli, Cairano e Teora.
Arminio li attraversa e percorre con un fervore che sconfina nel voyeurismo; in fondo, la sua neodisciplina è assai prossima ad altre scienze, quali la tanatologia e la teratologia, che osservano con malsana curiosità gli effetti della fine e della mostrificazione in atto. Cammina da quasi mezzo secolo con "una marcia da fermo" Arminio, scrutando i segni dell'horror vacui che pare estendersi progressivamente su paesaggi e abitanti: annota i nomi e le fisionomie delle persone vive, ricorda quelle morte copiando i manifesti funerari, trascrive i dialoghi ascoltati al bar o nelle botteghe, si appunta i modelli di auto che passano, osserva i segni dell'incuria sulle porte e sulle vetrine, descrive le strade e i lampioni, la solitudine e la desolazione dei cani e degli avventori al bar: un comparatista delle rovine, uno storico della desolazione.
I luoghi che predilige in questi reportage dal nulla, quelli in cui penetra convinto che in essi sia incistato il grumo più intimamente malato di questi luoghi, sono essenzialmente il municipio (Arminio è ossessionato dalle occorrenze demografiche: quanta gente abitava in questa terra della recriminazione, quanta ne è morta, quanta ne è fuggita, quanta ne è rimasta), la chiesa (l'omelia domenicale ha per lui la stessa potenza simbolica di un discorso sullo stato della nazione), il bar, il cimitero: indizi terrestri di spazi che hanno smarrito il senso di ciò che erano e significavano. Ma lo sfinimento dei paesi reitera, in miniatura, l'esaurimento di un ciclo storico di portata universale; la loro frastagliata cartografia finisce per coincidere con la diagnosi di una malattia più vasta e globale che ha colpito e devastato il mondo: "Il mondo è un paese, il paese è morto, dunque il mondo è un inferno popolato da mostri". L'inane vanità delle "magnifiche sorti e progressive" domina incontrastata in questi luoghi, sfiniti e inutili.
Ma per Arminio aggirarsi in quella terra desolata, oscillando tra pietas e necrofilia, è quasi una scelta obbligata, perché serve da principio di decifrazione del proprio destino: "Vado per vedere un paese, ma alla fine è il paese che mi vede, mi dice qualcosa di me che non sa dirmi nessuno". Il suo nomadismo immobile si muove in un chilometro quadrato "d'argilla e d'ansia" sapendo che, come in una poesia di Kavafis, quel chilometro ce lo trascineremo dietro, dovunque si andrà.
Il neoumanesimo scritturale di cui parla Arminio tenta di riparare una crepa eterna, prova a curare quel dolore del mondo che con tanta forza sa materializzarsi nei paesi e nelle case. Non è un caso che nei luoghi scandagliati dalla sua inesausta curiositas si vive sempre in una perenne emergenza post-terremoto. Il sisma viene sempre e comunque evocato a spiegare e giustificare tutto: la fuga dei giovani e la noia dei vecchi, l'ostentazione lubrica delle macerie e la febbrile irrequietezza dei cani. Ma è giustificazione che non regge, è accampare ragioni vacue e risibili per un trauma che è invece di dimensioni epocali e metafisiche. In questi luoghi va in scena la fine del mondo "che si guasta giorno per giorno, paese per paese". Questi paesi sono la pars pro toto, la sineddoche di un'umanità smarrita e derelitta che condensa il destino dell'infinita, smisurata megalopoli che è oramai il villaggio globale: "La Terra è grande quanto la puntina del giradischi e noi siamo la polvere che si è raccolta intorno". Dobbiamo abbandonarci al mondo, alla sua sparizione, sapendo che in essa c'è qualcosa che dura, "un'intensità che ci fa bene".
Linnio Accorroni
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